Indice. Premessa. 1. Condizione unilaterale e dottrina. 1.1 Teoria della rinuncia alla condizione. 1.2 Teoria del doppio condizionamento. 1.3 Teoria del doppio contratto. 2. Un ripensamento dei termini del problema. 3. Ambito di applicazione. 4. Il diritto "equo". 4.1 Limiti. 4.2 Termini. 4.3 Forma. 4.4 Regime pubblicitario. 5. Conclusioni.
Premessa
Alla luce del principio di autonomia contrattuale, sembra a chi scrive
di poter affermare, senza cadere in errore, che la stipulazione di una
clausola volta ad attribuire ad uno dei contraenti il potere di determinare
gli effetti che un certo evento deve produrre in ordine alla sorte del
contratto, sia, in via di principio, perfettamente valida.
In forza di una clausola di tal genere inserita in un contratto condizionale,
il contraente titolare della facoltà in questione può pertanto
liberamente decidere se mantenere in vita un negozio altrimenti divenuto
o destinato a rimanere inefficace a seguito dell’avveramento di una condizione
risolutiva o del definitivo mancato avveramento di una condizione sospensiva.
La clausola potrà attribuire al contratto, secondo l’intenzione
delle parti, natura di contratto normalmente condizionato cui é
affiancato un patto d'opzione, oppure di contratto aleatorio, o potrà
semplicemente, all'interno di un normale contratto di compravendita, assegnare
ad uno dei contraenti il diritto potestativo in questione quale corrispettivo
di una contropartita, ad esempio un prezzo più elevato del normale.
In questi ultimi anni abbiamo visto la giurisprudenza riconoscere con
sempre maggior frequenza, nei contratti di compravendita immobiliare, l’operatività
di un meccanismo analogo a quello ora visto.
I giudici, infatti, operano talvolta una distinzione tra condizione
bilaterale e condizione unilaterale ed attribuiscono a quest’ultima un
particolare modo operativo. Il suo tratto peculiare, consistente nell’essere
apposta al negozio a tutela di una sola delle parti contraenti, nella ricostruzione
giurisprudenziale, lascerebbe al soggetto portatore dell'interesse in questione
la facoltà e non l'obbligo di avvalersi della condizione stessa.
Ed il fenomeno non avrebbe nulla di strano se effettivamente la giurisprudenza
si limitasse a dare atto della presenza di una nuova esigenza socio-economica
che richiede un regolamento contrattuale ed un assetto degli interessi
coinvolti differenti da quelli considerati dal legislatore. Se, cioè,
i giudici non si riservassero che il compito di interpretare, attraverso
i canoni ermeneutici la reale intenzione dei contraenti quale espressione
di autonomia contrattuale e, di fronte alla pattuizione di una condizione
nell’interesse esclusivo di una delle parti procedessero alla verifica
della volontà di attribuire al soggetto titolare di tale interesse
il potere de quo optando, in caso di dubbio, ex art. 1369
c.c., per la soluzione che la riconduce allo schema legale o, come si osserva
in dottrina, per quel meccanismo che più favorisce la certezza dei
diritti soggettivi.
Ma così non è.
Non solo, infatti, i nostri giudici non si sono mai trovati di fronte
ad un caso in cui risultasse in modo inequivoco la volontà delle
parti di attribuire ad una di esse un potere in ordine all'efficacia del
contratto nonostante la deficienza della condizione sospensiva o l'avveramento
di quella risolutiva, ma neppure, dalle loro decisioni, emerge un'indagine
volta a stabilire se la comune intenzione delle parti, pur non dichiarata,
fosse rivolta a tale scopo.
Non si tratta, in sostanza, di una questione di fatto, volta a stabilire
se i privati abbiano voluto una condizione operante secondo lo schema legale
oppure una condizione operante solo se invocata dalla parte favorita, bensì
di una questione di diritto.
Affermare, infatti, che la condizione posta nell'interesse di uno solo
dei contraenti non coincide perfettamente con la fattispecie prevista dall'articolo
1353 c.c. permette di affermare che anche gli effetti possano non coincidere
e che il meccanismo, proprio dello strumento condizionale, che fa sì
che il verificarsi o il venir meno di un determinato evento produca in
modo automatico i proprii effetti sul contratto possa, nel caso della condizione
unilaterale, incepparsi.
La presente trattazione sarà rivolta, innanzi tutto, ad esaminare
la posizione assunta dalla dottrina di fronte a tale enunciazione. Il comportamento
tenuto dagli interpreti lascia, infatti, a prima vista, alquanto perplessi.
Dal punto di vista formale non vi è tra gli studiosi del diritto
chi non veda come l'indagine circa la correttezza dell'interpretazione
giurisprudenziale dovrebbe proporsi, in primo luogo, di risolvere il quesito
se la titolarità dell'interesse tutelato sia criterio sufficiente
a fondare, nell'ambito del genus condizione, due fattispecie distinte
e come tali produttive di effetti proprii.
Una sola considerazione basta ad escludere una risposta in senso positivo.
Il meccanismo condizionale previsto dal nostro codice civile, infatti,
com'é stato fatto notare in dottrina, é, di regola, introdotto
nel regolamento contrattuale su richiesta di una sola delle parti contraenti,
mentre l'altra vi si adatta perché, diversamente, la prima non contratterebbe.
Sotto questo punto di vista, il rinvio al principio di autonomia contrattuale,
contenuto nelle massime di numerose sentenze, appare privo di significato.
I giudici, infatti, invocano tale principio per fondare la legittimità
della stipulazione di una clausola condizionale nell’interesse di una sola
delle parti contraenti quando questa é già garantita dalle
norme in tema di condizione.
Il punto focale della questione, pertanto, sia nel caso in cui le parti
abbiano voluto una condizione nell’interesse di una sola tra esse, sia
nel caso in cui, di fronte ad una semplice pattuizione condizionale, la
giurisprudenza abbia ritenuto possibile individuare con precisione i caratteri
di specialità che distinguono la condizione unilaterale rispetto
a quella bilaterale, é quello di dimostrare la legittimità
del ragionamento che le ricollega gli effetti suesposti.
Posto, infatti, che non vi é alcuna norma, in tema di condizione,
che possa far desumere l'esistenza di un potere di questo tipo in capo
alla parte "favorita", per riconoscerlo bisognerebbe ammettere l'operatività,
nel nostro ordinamento, di una regola di portata generale che, subordinando
un effetto giuridico ad un fatto nell'interesse di una parte, attribuisca
a quest'ultima la facoltà di invocare o non invocare l'evento.
Al contrario, in dottrina si riporta, a titolo di esempio, la norma
che subordina la donazione alla forma. Pur essendo essa posta nell'interesse
del donante, il difetto di forma può essere fatto valere da chiunque.
Inoltre, se davvero si trattasse di un principio generale, non si vedrebbe
la ragione per cui il legislatore abbia, nelle ipotesi di risoluzione di
diritto, ritenuto necessario specificarlo e contenerlo entro un limite
di tempo molto ristretto.
Ora, fedeli al proprio compito di giuristi territoriali di dimostrare
che in un dato ordinamento, in un certo momento storico, esiste una sola
verità giuridica, la quale ha la sua fonte esclusiva nella legge,
mentre dottrina e giurisprudenza si incaricano soltanto, rispettivamente,
di ricostruirla ed applicarla, gli interpreti, disorientati dall’inesistenza
di una norma volta a giustificare il potere del soggetto nel cui interesse
la condizione è stata posta di indicare quali effetti l’evento dedotto
in condizione debba produrre in ordine all’operatività del contratto,
consentendogli di mantenere in vita un contratto divenuto o destinato a
rimanere inefficace, non avevano altra alternativa se non negare la correttezza
formale del principio enunciato dalla giurisprudenza o ricorrere all’art.1322
c.c.. La scelta pressoché uniforme della dottrina è stata
quella di invocare il principio di autonomia contrattuale. Una volta presupposta
la comune intenzione delle parti, essi hanno quindi proceduto ad un tentativo
di inquadrare l’istituto in parola in uno schema giuridico noto al fine
di individuarne la disciplina.
Il risultato sono state pertanto teorie più o meno convincenti
ma mai completamente aderenti al modello di elaborazione giurisprudenziale.
E non si vede d’altronde come avrebbero potuto esserlo dal momento che
diversi sono gli stessi presupposti di operatività della condizione
unilaterale posto che il potere di indicare quali effetti l’evento dedotto
in condizione debba produrre in ordine all’efficacia del contratto viene
fatto discendere, nelle prime, dalla volontà delle parti e nel secondo
dall’unilateralità dell’interesse tutelato.
1. Condizione unilaterale e dottrina [<<]
Sulla stessa scia della giurisprudenza si pongono quegli autori che parlano di rinuncia alla condizione, mentre spezzano l'unitarietà del fenomeno coloro che parlano di doppio condizionamento o di doppio contratto.
1.1 Teoria della rinuncia alla condizione [<<]
La tesi, come già osservato, ricalca le posizioni assunte dalla
giurisprudenza.
Il soggetto nel cui interesse la condizione é stata posta può
rinunciare ad avvalersene, e rendere così stabilmente efficace il
contratto cui tale clausola accede, sia durante il periodo di pendenza,
sia quando l’operare automatico della condizione non abbia portato a quel
risultato, ovverosia nei casi di mancato avveramento di una condizione
sospensiva o di avveramento di una condizione risolutiva.
I problemi maggiori sorgono in ordine alla qualificazione in termini
di rinuncia dell’atto con cui il soggetto favorito esercita la facoltà
di non avvalersi della condizione.
Se, infatti, la rinuncia é atto con cui si dismette un proprio
diritto, il termine può essere correttamente utilizzato per indicare
la dichiarazione di non volersi avvalere della clausola condizionale effettuata
durante il periodo di pendenza, ma non per la stessa dichiarazione effettuata
dopo che l’evento si sia verificato o sia venuto definitivamente meno.
In questo caso, infatti, delle due l’una.
O si sostiene l’operare automatico della condizione unilaterale, ed
allora si deve riconoscere l’impossibilità di parlare di rinuncia
ad un fatto storico e che l’atto del soggetto favorito viene piuttosto
a creare o ripristinare i diritti previsti dal contratto originario in
capo ad entrambe le parti, oppure si afferma che il verificarsi dell’evento
dedotto in condizione o la sua mancanza definitiva non sono produttivi,
da soli, di quegli effetti che normalmente vi si ricollegano, necessitando
di un’ulteriore dichiarazione della parte favorita.
In tal caso si potrebbe, forse, ancora parlare di rinuncia alla clausola
condizionale, volta a rendere o a mantenere efficace il contratto.
Il problema diventa, però, quello della riconducibilità
della fattispecie in esame alla condizione volontaria. Se, infatti, caratteristica
precipua di quest’ultima come afferma autorevole dottrina, é il
suo operare in modo automatico, un’assimilazione dei due istituti va senz’altro
esclusa.
Una conseguenza di ciò, crediamo, sarebbe l’inapplicabilità
alla condizione unilaterale del corollario della retroattività.
Si sostiene, infatti, in dottrina che il potere accordato alle parti
dall’art. 1353 c.c., non rientrando nella normale autonomia dei privati,
é improntato ad un carattere di eccezionalità ed eccezionali
sono anche alcune delle norme che lo disciplinano, quale, ad esempio, il
principio di retroattività.
Pertanto, nessun effetto retroattivo del tipo previsto dall’art.1360
c.c., "che non sia espressamente ammesso dalla legge, potrà ottenersi
con clausole diverse da quelle propriamente condizionali".
E proprio in merito al problema della retroattività, le soluzioni
accolte dalla dottrina favorevole alla tesi della rinuncia sono diverse.
Da un lato, vi é chi ritiene che, essendo la rinuncia un atto
unilaterale che costituisce esercizio del diritto potestativo attribuito
ad uno dei contraenti per la tutela di un suo personale interesse, ad essa
non sia applicabile il principio della retroattività della condizione,
insuscettibile di trasposizione a fattispecie diverse. L’opinione senz’altro
più comune, in quanto rispondente al fenomeno così come delineato
dalla giurisprudenza, é però quella di coloroche qualificano
la rinuncia come l’atto con cui una parte dismette il proprio diritto ad
avvalersi degli effetti della condizione. In tale ottica, la rinuncia interviene
a rendere puro fin dall’inizio il contratto ed opera perciò in modo
retroattivo.
Per quanto riguarda l’aspetto relativo alla forma della rinuncia, vi
é concordanza di opinioni in dottrina sul fatto che, indipendentemente
dal negozio a cui accede, la rinuncia possa essere compiuta in forma espressa,
scritta o orale, oppure tacita, mediante un comportamento incompatibile
con la volontà di avvalersi della condizione.
Da ultimo, resta da esaminare il problema del periodo entro cui la
rinuncia dev’essere effettuata.
Nel caso in cui, infatti, la rinuncia intervenga dopo l’avveramento
della condizione risolutiva o il definitivo mancato avveramento di quella
sospensiva, acquista rilevanza l’esigenza di tutelare l’affidamento della
controparte, definendo la situazione giuridica. Le soluzioni proposte sono
varie.
Vi é chi parla di tempo ragionevole, ma il termine rimane del
tutto vago.
Vi é chi ricorre, invece, alla soluzione di far coincidere il
limite temporale con il momento in cui la controparte ha conoscenza dell’avveramento
o del definitivo mancato avveramento della condizione, oppure con il momento
in cui il silenzio o il comportamento della parte interessata rivelino
la volontà di quest’ultima, in modo tale da determinare il legittimo
affidamento della controparte circa la definitività della situazione.
Il primo termine si rivela inadeguato perché viene a snaturare
la caratteristica principale con cui la condizione unilaterale opera, giacché
la controparte, conoscendo tale meccanismo, non può aver fatto alcun
affidamento sulla definitività della situazione effettuale del contratto
per il solo fatto di essere venuto a conoscenza della sorte della condizione.
Inoltre, potrebbero darsi dei casi in cui il potere di rinuncia non viene
neppure ad esistenza, ben potendo la controparte acquisire conoscenza dell’avveramento
o del mancato avveramento della condizione prima della parte nel cui interesse
essa é stata posta.
Il secondo termine, poi, nulla dice. In primo luogo, il silenzio, da
solo, non potrebbe chiarire la volontà del soggetto cui spetta il
diritto di rinunciare alla condizione. Ciò a meno di considerare,
accettando la tesi prospettata dai teorici della rinuncia circa l’operare
automatico della condizione, che la mancata dichiarazione valga a renderne
definitivi gli effetti.
In tal caso, resterebbe comunque da chiarire il periodo entro cui il
silenzio verrebbe ad assumere tale significato. Infine, indicare il limite
temporale nel momento in cui la parte interessata rivela la propria volontà
con un comportamento concludente equivale a non fissare alcun limite al
suo potere discrezionale.
1.2 Teoria del doppio condizionamento [<<]
Tale teoria é stata sviluppata sul presupposto che la condizione
unilaterale, così come configurata dai giudici, non operi, in realtà,
in modo automatico.
Ciò in base alla considerazione che, anche conclusasi la fase
di pendenza, nel senso che si é verificata la condizione risolutiva
o é definitivamente mancata quella sospensiva, continua l'incertezza
sulle sorti del rapporto finché non si realizza
quel fatto ulteriore che é la dichiarazione del contraente nel cui
interesse la condizione é stata posta.
L'ipotesi é allora che tale manifestazione di volontà
operi essa stessa come condizione di efficacia del negozio.
Al contratto sarebbero, cioè, apposte, in rapporto di alternatività,
due clausole condizionali, l'una del tipo "si navis ex Asia venerit"
e l'altra del tipo "si volam".
Nel caso in cui l'evento sia tale da provocare l'efficacia del negozio,
nulla quaestio: il contraente favorito non ha alcun potere estintivo
sul contratto che, pertanto, diviene immediatamente o definitivamente efficace.
Se, invece, l'evento viene a negare efficacia al negozio, detto contraente
ha il potere, derivantegli dalla condizione potestativa, di far sì,
con una dichiarazione di volontà, che questo produca comunque gli
effetti che gli sono proprii.
Tali effetti si producono, in ogni caso, automaticamente al verificarsi
di uno dei due eventi dedotti in condizione, data la natura alternativa
del condizionamento.
Le critiche rivolte a tale teoria sono incentrate, per lo più,
sul problema dell'ammissibilità o meno di una clausola condizionale
del tipo "si volam".
Ci si domanda, in primo luogo, se essa non rientri nella fattispecie
prevista dall'art. 1355 c.c..
Una risposta in senso affermativo, infatti, porterebbe a concludere
per l'erroneità della tesi del doppio condizionamento, posto che
la condizione meramente potestativa rende nullo il contratto cui accede.
In dottrina é stato però sostenuto che la vendita, i
cui effetti sono fatti dipendere dalla volontà di uno dei contraenti,
é valida, in quanto costui, optando per l'efficacia del contratto,
subisce una perdita giuridica, mentre condizione meramente potestativa
é soltanto quella in cui la volontà non é subordinata
ad alcun sacrificio.
D'altronde, anche la giurisprudenza, che, supportata dalla dottrina
dominante, individua il carattere distintivo tra condizione potestativa
valida e condizione meramente potestativa invalida nei motivi che stanno
alla base della decisione del contraente cui é rimessa la scelta
circa le sorti del contratto, cosicché si avrebbe una condizione
potestativa in tutti quei casi in cui la scelta si fonda su motivi obiettivamente
seri e come tali meritevoli di tutela, é incline ad applicare con
considerevole larghezza il parametro della serietà delle motivazioni.
In tale ottica, nel caso della condizione potestativa facente parte
del condizionamento unilaterale, la serietà degli interessi del
contraente é provata dal fatto che costui ha accettato di vincolarsi
fin dall'inizio, e, pertanto, non é configurabile l'ipotesi prevista
dall'art. 1355 c.c..
Più a monte é il problema, prospettato in dottrina, se
la clausola "si volam" sia configurabile come condizione potestativa.
Si sostiene, infatti, che ciò che caratterizza la fattispecie
condizionale é che l'evento in essa dedotto opera, rispetto al negozio
condizionato, come un fatto giuridico o un atto giuridico in senso stretto.
Ove fosse dedotta in condizione la dichiarazione di volontà
di uno dei contraenti, volta a far produrre o a rendere stabili gli effetti
del negozio, tale conseguenza si produrrebbe direttamente in forza della
dichiarazione, la quale verrebbe così a configurare "un negozio
giuridico, il cui compimento costituisce l'atto di esercizio di un diritto
potestativo".
Sulla base di queste osservazioni, lo stesso Autore della teoria del
doppio condizionamento ne prospetta un superamento verso l'ultima tesi
elaborata in ordine alla condizione unilaterale.
1.3 Teoria del doppio contratto [<<]
Il ragionamento é il seguente: se la clausola "si volam"
non può essere ricondotta alla fattispecie condizionale, occorre
dargli una diversa collocazione giuridica. Dopo attenta analisi del fenomeno
dell'opzione e della vendita a prova, il succitato Autore ritiene di poter
affermare che il negozio sottoposto a tale clausola sia un negozio in via
di formazione e che esso stesso non possa essere che un'opzione. La condizione
unilaterale sottenderebbe, pertanto, due negozi.
Un primo negozio, casualmente e bilateralmente condizionato, sarebbe
affiancato da un'opzione volta a dar vita ad un rapporto incondizionato
di contenuto identico a quello del contratto originario.
Tale soluzione, che avrebbe il grosso vantaggio di risolvere i problemi
inerenti alla tutela dell'interesse della controparte alla certezza della
situazione giuridica nascente dal contratto, in quanto l'art. 1331 c.c.
prevede che, ove non vi abbiano provveduto le parti, il giudice possa fissare
un termine entro cui esercitare l'opzione, non si sottrae tuttavia alle
critiche.
In primo luogo, tale teoria risulta inapplicabile alla condizione risolutiva,
per la quale, pure, la giurisprudenza ammette la rinunziabilità.
L'opzione, infatti, ha ad oggetto la conclusione di un futuro negozio,
mentre nell'ipotesi di condizione risolutiva unilaterale, la dichiarazione
del contraente favorito ha ad oggetto la sopravvivenza di un contratto
già esistente.
Tale manifestazione di volontà, si sostiene in dottrina, sarebbe
piuttosto riconducibile al fenomeno del recesso e del patto di riscatto.
L'affermazione non ci pare coerente con quanto fin qui sostenuto.
Di fronte al verificarsi di una condizione unilaterale risolutiva,
le sorti del contratto rimangono incerte fino ad una dichiarazione della
parte nel cui interesse la condizione é stata posta. Da un raffronto
di questa situazione con le fattispecie previste dagli artt. 1456 e 1457
c.c., ci sembra che tale dichiarazione possa essere di due tipi.
Può, infatti, essere rivolta ad impedire che si verifichino
gli effetti risolutori o, a seconda dell'interpretazione che si dà
dell'art. 1457 c.c., a ripristinare gli effetti del contratto dopo che
questi sono venuti meno per l'operare automatico della condizione, oppure
può manifestare l'intento della parte di volersi avvalere della
condizione stessa.
Nelle due ipotesi iniziali, a prescindere dal problema in ordine alla
prima circa il mancato automatismo della condizione, la dichiarazione di
volontà non può essere ricondotta allo schema del recesso
o del patto di riscatto, in quanto diretta a produrre effetti diametralmente
opposti.
L'ultima ipotesi, che potrebbe invece essere avvicinata allo schema
suddetto, viene però a privare la condizione di quel carattere di
automaticità che con tale tesi si intende salvaguardare. Gli effetti
risolutori verrebbero infatti a prodursi non in forza della condizione,
bensì della dichiarazione stessa.
In realtà, ed é questa la critica maggiore, la teoria
riporta drammaticamente a galla il problema del ruolo attribuito all’elemento
volitivo nella ricostruzione del fenomeno.
La teoria in esame si fonda infatti sulla volontà delle parti,
la quale dev'essere chiaramente rivolta a costituire una struttura giuridica
complessa, formata, cioè, da un contratto condizionato e da un contratto
di opzione di contenuto identico al primo e l'interprete, che si trovi
a dover qualificare una pattuizione contenente soltanto una condizione
che, per volontà delle parti o per la natura dell'interesse che
é rivolta a tutelare, risulta apposta a vantaggio di uno solo tra
i contraenti, non può forzare la volontà di questi "arrivando
a moltiplicare ciò che essi hanno voluto e previsto come unitario".
2. Un ripensamento dei termini del problema [<<]
Del resto, dimostrata la scarsa aderenza al fenomeno delle teorie che
fondano la possibilità di rinunciare alla condizione sul consenso
delle parti contraenti, ci troviamo comunque ad un punto morto. Di fatto,
i giudici continuano ad applicare questa strana creazione che è
la condizione unilaterale e continuare a sostenerne l’erroneità
non porterebbe ad alcun risultato utile.
In realtà, le ricostruzioni dell’istituto offerte dalla dottrina
cessano di apparire bizzarre non appena ci si pone sotto un angolo visuale
differente e si esce dall’ottica che ogni elaborazione del diritto possa
e soprattutto debba essere spiegata in termini di rigorosa formale logica
giuridica.
Il diritto è, innanzi tutto regolamentazione e tutela di interessi
contrapposti. La scelta di adottare una soluzione piuttosto che un'altra
dipende in primo luogo da una scelta sostanziale differente. Sotto questo
profilo occorre ricordare innanzi tutto che non è detto e, di norma,
non accade che l’interesse originariamente tutelato con l’apposizione della
condizione coincida con quello che il contraente favorito fa valere con
l’esercizio del potere di rinuncia.
Attraverso il meccanismo della condizione, infatti, entrambi i contraenti,
o uno solo tra essi, si tutelano rispetto ad un possibile mutamento della
situazione, regolando gli effetti che questo deve produrre sul contratto.
Al momento della stipulazione, viene così fissato un regolamento
d’interessi strettamente collegato al solo verificarsi o meno dell’evento
dedotto in condizione: tanto che l’evento si verifichi, quanto esso venga
a mancare, la parte, o le parti, vedranno realizzato il proprio interesse.
Nella condizione unilaterale, invece, é evidente come l’interesse
a veder realizzati ugualmente gli effetti negoziali sia profondamente diverso
da quello presente al momento della stipulazione.
Per quale ragione, ci si chiede, un soggetto che é inizialmente
disposto a contrattare soltanto a determinate condizioni, in un momento
successivo muta parere decidendo di contrattare in ogni caso? La risposta
non può essere che una: perché é mutata la situazione
di fatto.
Se, per citare un caso classico, l’acquirente di un terreno sotto la
condizione che sia rilasciata la concessione ad edificare decide di contrattare
nonostante il mancato rilascio, evidentemente l’interesse che persegue
non é più quello di ottenere un terreno edificabile.
O si ammette, pertanto, la validità di un contratto privo di
causa, o si deve riconoscere che é sopravvenuto un nuovo interesse
in capo a tale soggetto. L’esempio, paradossale, portato dalla dottrina,
é che sul terreno in questione sia stato scoperto un giacimento
petrolifero. Un’ipotesi più probabile é quella che un forte
rialzo nella richiesta di terreni o l’elevata inflazione ne abbiano reso
comunque vantaggioso l’acquisto.
Se così é, non é detto, e, nello specifico, l'apposizione
di una condizione nell'interesse di una sola parte non postula, che la
controparte, risoltasi a sopportare il rischio derivante dalla mancata
concessione del provvedimento amministrativo, debba per ciò sopportare
rischi ulteriori.
3. Ambito di applicazione [<<]
Questa seconda parte della trattazione sarà pertanto rivolta
ad esaminare i casi nei quali la giurisprudenza ha ritenuto utile applicare
l’istituto in parola.
In una delle prime pronunce sull’argomento si dibatteva a proposito
di un contratto preliminare con cui si compravendeva un appezzamento di
terreno di cui i venditori garantivano l’edificabilità secondo un
certo progetto e si impegnavano a portare a termine la pratica per ottenere
la licenza edilizia. Trascorso un anno dalla stipulazione, l’acquirente
conveniva gli alienanti onde ottenere l’esecuzione del contratto. I convenuti
eccepivano l’avvenuta risoluzione del contratto quale conseguenza del verificarsi
della condizione apposta alla convenzione e, cioè, la mancata autorizzazione
a costruire sul terreno secondo il progetto originario.
Tanto i giudici di merito, in un primo tempo, quanto la Suprema Corte,
poi, hanno invocato il carattere unilaterale della condizione onde riconoscere
all’acquirente la possibilità di rinunciare ad essa ed hanno, quindi,
rispettivamente accolto e confermato la sua domanda.
Dagli atti risulta però come la controparte fosse in colpa per
non aver realizzato l’evento che, con poche modifiche al progetto originario,
peraltro accettate dall’acquirente, si poteva conseguire.
Gli alienanti, inoltre, avevano nel frattempo alienato ad un terzo
lo stesso terreno. Pertanto, l’unico modo per tutelare gli interessi dell’acquirente
di fronte al comportamento scorretto della controparte era di ricorrere
alla nozione di rinuncia alla condizione. Solo così, infatti, la
vendita sarebbe stata efficace dal momento della stipulazione e come tale
opponibile ai terzi.
Un’analoga ratio decidendi si può ravvisare in Cass.20/10/1989,
n.5757 .
A seguito dell’inadempimento di un contratto preliminare di vendita,
i promittenti compratori, convenuti per la risoluzione, chiesero, in via
riconvenzionale, l’esecuzione del contratto in forma specifica.
Il Tribunale accolse tale domanda.
Il promittente alienante fece appello contro l’applicazione a suo danno
dell’art.2932 c.c. sostenendo l’inefficacia del rapporto negoziale in quanto
condizionato al rilascio, da parte del Comune, del certificato di abitabilità
dell’immobile.
La Corte d’Appello, sulla base di tali premesse, rigettò sia
la domanda di risoluzione sia quella riconvenzionale degli appellati.
Dopo una prima pronuncia della Cassazione, tanto nella decisione del
giudice di rinvio, quanto nella sentenza in esame, al fine di tutelare
gli acquirenti, il riconoscimento della natura unilaterale della condizione
che, solo, potrebbe giustificare la rinuncia ad essa da parte dei promittenti
acquirenti, é affiancato alla considerazione dell’"evidente e massivo
inadempimento" da parte dell’alienante.
Quest’ultimo, infatti, in quanto costruttore dell’immobile de quo,
lungi dall’adoperarsi presso le competenti Autorità per ottenere
il rilascio del certificato di abitabilità, si era posto in una
situazione di aperta illegittimità realizzando l’edificio in modo
difforme dal progetto autorizzato, precludendosi così il rilascio
del certificato medesimo.
Da ultimo, la sentenza della Suprema Corte salutata dalla dottrina
come totalmente innovativa in materia altro non fa che rispondere anch’essa
ad una ratio di sostanziale equità. La Corte di Cassazione
ha infatti negato che con riferimento alla condizione unilaterale si possa
parlare di rinunzia ed ha ritenuto doversi più correttamente parlare
di opzione con la conseguenza che, vista l’eccezionalità del diritto
potestativo attribuito ad uno dei contraenti rispetto alla normale struttura
del negozio condizionato, questo non si possa desumere dal
semplice fatto che una sola delle parti sia interessata al verificarsi
(o al non verificarsi) dell’evento dedotto in condizione.
Dalla lettura degli atti processuali risulta però come la scelta
dell’attore nel giudizio di merito di chiedere che, ai sensi dell’art.2932
c.c., gli venissero trasferiti degli appezzamenti di terreno che il convenuto
gli aveva promesso in vendita con scrittura privata, nonostante la mancata
approvazione del progetto di costruzione (evento quest’ultimo dedotto in
condizione), da altro non fosse dettata che dalla presenza di una forte
svalutazione monetaria, come risulta dal fatto che il convenuto avesse
chiesto, tra l’altro, la risoluzione per eccessiva onerosità sopravvenuta.
In sostanza, la giurisprudenza fa uso della condizione unilaterale
non quando questa risulti essere la volontà delle parti e neppure
ogniqualvolta si trovi di fronte ad una clausola condizionale apposta nell’interesse
esclusivo di uno solo dei contraenti, bensì soltanto qualora ciò
le permetta di soddisfare esigenze particolari della prassi contrattuale
quale, ad esempio, sanzionare la condotta contraria a buona fede di una
delle parti con maggior efficacia che con altri mezzi di tutela.
4. Il diritto "equo" [<<]
Lasciando da parte per le ragioni suaccennate il problema circa la legittimità
di un siffatto comportamento, con l’ultima parte della presente trattazione
tenteremo di procedere ad un esame degli interessi che si intendono con
esso tutelare e di trovare, qualora si ravvisi che sono tutti degni di
protezione giuridica, una soluzione che costituisca un loro equo contemperamento.
Si tratta, in altre parole, di riconoscere, nel delimitato campo in
cui lo riconosce la giurisprudenza, vale a dire quello dei contratti o
dei preliminari di vendita immobiliare, il diritto di cui si discute in
capo al soggetto nel cui interesse la condizione é stata posta,
se e nella misura in cui questo sia espressione di un'esigenza reale che
il legislatore non ha avvertito e non comporti sacrifici sproporzionati
di quelle formalità che assicurano al diritto la sua efficacia.
Sotto questo aspetto, la rinuncia alla condizione permetterebbe, da
un lato, di sanzionare il comportamento scorretto di coloro che utilizzano
una condizione che non avevano interesse a che fosse inserita nel contratto
al fine di sciogliersi dall'impegno contrattuale precedentemente assunto
e, dall'altro, nel caso in cui la volontà di entrambe le parti sia
comunque rivolta a rendere o a mantenere efficace il contratto, di evitare
le onerose formalità che, nel campo dei diritti immobiliari, sono
necessarie alla creazione di un nuovo contratto e, non producendo il nuovo
accordo effetti che per l’avvenire, una serie di problemi legati alla tutela
della situazione intermedia.
D'altronde, l'eccessiva liberalità circa la forma della rinuncia
ed il periodo di tempo entro cui questa dev'essere effettuata, dà
vita ad una serie di problemi in ordine alla tutela dell'altro contraente.
Si pensi alla possibilità, per il soggetto nel cui interesse
la condizione é stata apposta, di speculare, senza limite di tempo,
sui mutamenti della situazione di fatto sulla base della quale il contratto
era stato stipulato, o, più semplicemente, alla situazione di incertezza
giuridica in cui viene a trovarsi il soggetto che la condizione l'ha, invece,
subita.
In questa nuova ottica, i tentativi compiuti dalla dottrina per inquadrare
il fenomeno della condizione unilaterale in una categoria giuridica nota
possono essere rivalutati in quanto tentativi di definire i limiti entro
cui esso può operare.
Sempre in quest'ottica, l'escamotage di presumere una volontà
delle parti in grado di fondare il diritto a rinunciare alla condizione,
perde la sua connotazione di ingenuità per diventare strumento in
grado di giustificare, sul piano formale, le suddette esigenze.
4.1 Limiti [<<]
Occorre allora innanzi tutto stabilire i casi in cui il giudice può
affermare l’unilateralità della clausola al fine di farne discendere
gli effetti che abbiamo visto.
Se la facoltà di rinunciare é accordata a tutela di interessi
particolari, si tratta di accertare se tali interessi siano effettivamente
meritevoli di protezione.
La verifica di ciò, non é, però, sempre affidata
alla stessa persona, ma può spettare tanto all'interprete quanto
alle parti contraenti.
Spetta al primo qualora le parti non si siano riservate a priori tale
facoltà, limitandosi a prevedere una clausola condizionale, del
tipo di quelle da noi esaminate, senza specificazione alcuna della titolarità
degli interessi ad essa sottesi.
In questo caso, la rinuncia é, a parere di chi scrive, ammissibile
soltanto ove operi sulla base del consenso presunto della parte che ha
subito la condizione.
Riconoscere ai contraenti la possibilità di eludere le costose
formalità necessarie alla sostituzione del contratto risolto o definitivamente
inefficace con uno nuovo risponde, infatti, all'interesse dei contraenti
e a quello generale in quanto tende a favorire le transazioni commerciali.
La giurisprudenza potrà, cioè, dare ulteriore rilevanza
ai motivi individuali se ed in quanto questi non confliggano con gli interessi
che hanno portato l'altra parte a contrattare.
Così, mentre l'ottenimento da parte del compratore di una forma
di finanziamento diversa da quella dedotta in condizione sarebbe motivo
valido per concedere la rinuncia, non altrettanto sarebbe lo speculare
su un improvviso aumento del valore dell'immobile.
In nessun caso, invece, ci sembra di poter avallare quelle decisioni
della giurisprudenzache utilizzano la rinuncia alla condizione al fine
di sanzionare il comportamento scorretto della controparte, in quanto tale
interesse trova già adeguata protezione altrove.
All'opposto, qualora i contraenti abbiano espressamente dichiarato
l'unilateralità della condizione, caso, per la verità, del
tutto scolastico come osservato più sopra, deve intendersi che,
in conformità al principio di autonomia contrattuale,
essi abbiano voluto regolare l'istituto in modo difforme da quanto previsto
dagli artt.1353 e ss. c.c..
In questo caso, la rinuncia alla condizione sarà, nell'ambito
della liceità, sempre possibile.
Stabiliti i limiti entro cui tale fattispecie può operare, resta
il problema di fissare le modalità di esercizio del diritto che
con essa viene ad essere riconosciuto in capo ad uno dei contraenti.
4.2 Termini [<<]
Delimitare cronologicamente la facoltà di rinunciare alla condizione
risponde ad esigenze di tutela della parte che non ha alcun potere in ordine
alla sorte del contratto, la quale sarà tanto più protetta
quanto minore sarà il tempo lasciato a disposizione della controparte
per la scelta tra la manutenzione e la caducazione del negozio.
Risponde, inoltre, ad esigenze di tutela dei terzi aventi causa dalle
parti contraenti.
Del resto, la scelta di limitare le situazioni di incertezza circa
la titolarità dei diritti soggettivi é principio generale
nel nostro ordinamento.
Così, a titolo di esempio e per restare in ambito contrattuale,
la proposta irrevocabile e l'opzione sono destinate ad un'efficacia limitata
nel tempo, l'azione di annullamento si prescrive in cinque anni, nella
risoluzione per scadenza del termine essenziale per una delle parti, la
facoltà di quest'ultima di paralizzare gli effetti dell'inutile
decorso del termine dev'essere esercitata entro tre giorni, il riscatto
nella vendita di beni immobili non può essere esercitato oltre cinque
anni dalla vendita.
Potrebbe, a prima vista, far dubitare della correttezza delle considerazioni
finora svolte la regola contenuta nell'art. 1456 c.c.. Il potere della
parte adempiente, infatti, di dichiarare che intende valersi della clausola
risolutiva e di determinare, in conseguenza, la risoluzione del rapporto
contrattuale é temporalmente illimitato. Anche in questo caso, però,
la giurisprudenza ha attribuito alla controparte, ossia al contraente inadempiente,
la facoltà di paralizzare il potere del creditore in ordine alla
sorte del contratto mediante l'adempimento tardivo della propria prestazione.
Non ci sembra di poter individuare, nel caso della condizione unilaterale,
facoltà del destinatario della rinuncia in grado di bloccare l'iniziativa
del soggetto nel cui interesse la condizione é stata posta.
Si tratta pertanto di accertare se, per analogia con altri istituti
regolati dalla legge, sia possibile stabilire un termine fisso, oppure
spetti al giudice, su domanda della controparte, indicarlo di volta in
volta, oltre il quale la scelta tra la manutenzione e la caducazione del
negozio sia preclusa.
Abbiamo già avuto modo di constatare l'inadeguatezza di alcuni
termini suggeriti dalla dottrina. Ci resta ora da esaminare la proposta
di chi ritiene che si possa applicare analogicamente l'art. 1457 c.c..
Il contraente nel cui interesse la clausola condizionale é stata
posta avrebbe, cioè, soltanto tre giorni per dichiarare se, nonostante
il mancato avveramento della condizione sospensiva o l'avveramento di quella
risolutiva, intende dare esecuzione al contratto.
Il raffronto, a livello teorico, é allettante.
Sul piano pratico, però, é poco realistico suggerire
un termine talmente breve che la giurisprudenza, lo abbiamo visto, tende
a disapplicare anche nel caso per cui é stato espressamente previsto.
Per quanto riguarda il ricorso alle norme in tema di fissazione giudiziale
del termine, esso non ci pare una soluzione auspicabile.
Quand'anche fosse possibile, infatti, trovare una norma applicabile
per analogia al caso della condizione unilaterale, si verrebbero in tal
modo a sacrificare le esigenze di tutela dei terzi nonché quelle
dell'intero sistema economico, che rimarrebbero in balia dell'iniziativa
del contraente destinatario della rinuncia, senza contare che un procedimento
giudiziario richiede tempi molto lunghi.
In ultima analisi, si potrebbe ipotizzare che la facoltà di
rinunciare alla condizione qualora, s’intende, le parti non abbiano diversamente
stabilito, debba essere esercitata entro "il termine ordinariamente necessario
secondo la natura dell’affare o secondo gli usi".
Accogliendo tale tesi, nel caso da noi preso in considerazione di contratto
immobiliare sottoposto a condizione sospensiva nell’interesse dell’acquirente,
quest’ultimo non potrà chiedere l’esecuzione del contratto trascorso
un periodo di tempo tale da ingenerare nel venditore il legittimo affidamento
circa la definitiva inefficacia del negozio.
In quest’ottica, il giudice potrà essere chiamato, in primo
luogo, a stabilire un termine di riferimento e, quindi, ad accertare la
congruità del tempo realmente trascorso rispetto ad esso.
La soluzione non é molto dissimile da quella adottata dai giudici
per determinare il termine oltre il quale la condizione debba ritenersi
definitivamente mancata.
In mancanza della previsione contrattuale di un termine per il verificarsi
dell'evento in essa dedotto, le parti rimarrebbero infatti obbligate a
tempo indeterminato.
La giurisprudenza ritiene talvolta, e specialmente per i contratti
di compravendita immobiliare, di poter individuare un termine implicito
desumibile dalla natura del negozio o dagli usi.
Certo non può non sorprendere che un ordinamento, cui l’idea
che la titolarità di un diritto soggettivo rimanga indeterminatamente
incerta non é affatto congeniale, non abbia previsto, per l’ipotesi
della condizione, norme dirette a limitare tale incertezza.
Tanto più che, mentre per gran parte dei casi sopra citati come
esempi in cui il legislatore ha ritenuto opportuno limitarla, l’incertezza
fra le parti non si riflette sui terzi, l’avveramento della condizione
sospensiva, così come la rinuncia ad essa, hanno efficacia retroattiva.
4.3 Forma [<<]
Per quanto concerne il problema relativo alla forma della rinuncia alla
condizione, la non necessarietà di un atto di rinuncia formale é
sostenuta dalla giurisprudenza, che sembra incline ad ammettere anche una
manifestazione di volontà per facta concludentia.
Ciò in quanto, pur avendo la rinuncia ripercussioni nella sfera
della titolarità dei diritti reali immobiliari, essa, limitandosi
a rimuovere un ostacolo alla normale operatività del negozio, non
inciderebbe direttamente su di essi e non cadrebbe, pertanto, sotto la
prescrizione dell’art. 1350 c.c..
In realtà, la scelta della forma discende quale corollario dalla
qualificazione giuridica data alla rinuncia. Il problema dovrebbe, piuttosto,
essere analizzato in relazione alla più vasta e delicata tematica
della forma degli atti in genere ed in particolare della forma di quegli
atti che, in qualche modo, incidono su diritti reali immobiliari.
Vero é che la soluzione adottata dai giudici sembra portare
molto lontano dai canoni tradizionali in materia di forma e che la stessa
giurisprudenza di legittimità, ha adottato, in altre situazioni,
una posizione più restrittiva, stabilendo che, anche in mancanza
di un’espressa previsione normativa, i negozi risolutivi di precedenti
accordi redatti in forma scritta ad substantiam debbano pure rivestire
la forma scritta.
Ma é vero, altresì, che in dottrina la tendenza della
giurisprudenza ad estendere la forma ad substantiam anche a casi
non previsti dal legislatore é stata criticata sulla considerazione
che il nostro sistema é già molto rigoroso e che le norme
su cui si basa pongono gravi deroghe all’autonomia negoziale e devono,
pertanto, essere considerate norme eccezionali.
4.4 Regime pubblicitario [<<]
Ulteriore problema riguarda il regime pubblicitario della rinuncia.
Non bisogna dimenticare, infatti, che controinteressati a quest’ultima
possono essere anche i terzi, se aventi causa dall’alienante.
Si pensi, ad esempio, al caso in cui questo abbia venduto una prima
volta con contratto sottoposto a condizione unilaterale ed una seconda
volta con contratto sottoposto alla condizione che il primo negozio non
produca effetti, o, ancora, alla situazione del creditore dell’alienante
che, prima della rinuncia abbia trascritto un pignoramento immobiliare.
In quale modo verranno risolti gli eventuali conflitti tra il compratore
in forza del secondo contratto e il creditore, da un lato, ed il primo
avente causa dall’alienante, dall’altro?
Il problema é stato alquanto dibattuto in dottrina e, come già
visto per la forma, la soluzione dipende dalla natura attribuita alla rinuncia,
in quanto su essa si fonda la possibilità o meno di procedere alla
sua trascrizione.
La rinuncia può, infatti, essere trascritta soltanto ove la
si qualifichi come esercizio di un diritto di opzione, ma abbiamo già
visto come tale ricostruzione dell’istituto sia, in realtà, artificiosa,
oppure ove le si riconosca efficacia modificativa del precedente accordo.
La questione può, forse, essere semplificata se si considera
che le vicende legate alla condizione non sono mai opponibili ai terzi
se ad esse non é stata data adeguata pubblicità. Così,
ex art. 2668 c.c., dev’essere cancellata l’indicazione della condizione
qualora il contratto, per l’avveramento della condizione sospensiva, debba
considerarsi puro mentre, per analogia con quanto disposto dall’art. 1655
c.c., dev’essere annotato, in margine al contratto,
il mancato avveramento.
I terzi aventi causa dall’alienante devono, pertanto, in ogni caso,
attendere l’annotazione al fine di poter rendere opponibile il consolidamento
del proprio diritto.
Ebbene, nel caso di condizione unilaterale, non si farà luogo
all’annotazione se non dopo che il compratore abbia scelto di non avvalersi
della facoltà di rinuncia.
Si osserva in dottrinache, se é vero che la trascrivibilità
immediata del contratto condizionato sospensivamente risponde ad un’esigenza
di garanzia per l’acquirente, non si vede come tale garanzia potrebbe venir
meno per il fatto che sopravvenga una rinuncia.
Se i terzi soccombono di fronte ad una trascrizione presa con riferimento
ad un acquisto solo potenziale, sembra giusto che tale soccombenza consegua
anche ad una rinuncia che su tale potenzialità opera.
Un problema potrebbe essere, piuttosto, quello relativo al termine
entro cui il compratore può esercitare la rinuncia. Secondo l’interpretazione
analogica dell’art. 2655 c.c., infatti, l’annotazione può eseguirsi
in virtù della dichiarazione unilaterale del soggetto in danno del
quale la condizione sospensiva é mancata, o di sentenza.
Se soggetto in danno del quale la condizione é mancata é
colui che perde definitivamente la possibilità di acquistare la
titolarità del diritto, ovverosia il compratore, costui potrebbe
non procedere, né all’annotazione, né alla rinuncia, prolungando
così, a tempo indeterminato, la situazione di incertezza. Vero é
che l’alienante potrebbe rivolgersi al giudice per ottenere una sentenza
che, dichiarando prescritta la facoltà dell’acquirente di rinunciare
alla condizione, certifichi il mancato avveramento di questa.
Tale soluzione non é, però, molto soddisfacente date
le note lungaggini di un procedimento giudiziario.
Se, d’altronde, la previsione, de iure condendo, della possibilità,
anche per l’alienante, di ottenere l’annotazione ex art. 2655 c.c., potrebbe
in parte ovviare a tali inconvenienti, la tutela offerta ai terzi resterebbe
del tutto inidonea.
Conclusioni [<<]
La verità é che l’intera disciplina della condizione non
fornisce una tutela adeguata ai terzi.
E forse é sulla base di queste considerazioni che occorrerebbe
seriamente domandarsi se sia il caso, con l’introduzione della condizione
unilaterale, di ampliare ulteriormente i profili di incertezza dell’istituto.
Del resto, la stessa giurisprudenza di legittimità é
di recente tornata sui suoi passi al fine di indicare una soluzione in
grado di meglio tutelare tutti gli interessi coinvolti.
La sentenza, già esaminata, non specifica se la volontà
delle parti debba essere chiaramente rivolta ad attribuire ad una tra esse
un diritto di opzione o semplicemente possa limitarsi a chiarire la natura
unilaterale degli interessi sottesi alla clausola condizionale, essendo
in facoltà del giudice di farne discendere la rinunciabilità.
Tale seconda ipotesi permetterebbe di salvaguardare tanto le esigenze avvertite
dalla giurisprudenza quanto quelle di tutela dei terzi e di rispetto della
forma da noi evidenziate- ricordiamo, infatti, che l’esercizio del diritto
di opzione opera con efficacia ex nunc ed é soggetto alla
forma prevista per il negozio cui accede.
E tale seconda ipotesi sembra confermata da una successiva pronuncia
della Suprema Corte.
Se, però, tale soluzione risulta soddisfacente sul piano della
tutela delle esigenze ora evidenziate, coerentemente con le premesse dobbiamo
andare oltre queste ultime pronunce ed ammettere che la giurisprudenza
possa, nei casi sopra indicati, riconoscere ad uno dei contraenti il potere
di disporre della sorte del contratto anche ove l’unilateralità
della condizione non sia stata espressamente prevista.
Del resto, appare ormai evidente come l’invocazione del principio di
autonomia contrattuale non sia che un simulacro per giustificare il potere
del giudice di creare norme giuridiche ogniqualvolta il caso specifico
non risulti regolato dalla legge in modo tale da soddisfare in modo equo
gli interessi in gioco.
Monica Bacin