Cass.
27 maggio 1975 n. 2129
Il nostro ordinamento riconosce il diritto alla riservatezza, che consiste nella tutela di quelle situazioni e vicende strettamente personali e familiari le quali, anche se verificatesi fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti, per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l’onore, la reputazione o il decoro, non sono giustificati da interessi pubblici preminenti. |
Nel 1975, la Cassazíone prende decisa e diretta posizione nei
confronti dei diritto alla riservatezza. Dopo aver negato per molto tempo
l'ammissibilità di una protezione autonoma del rispetto della vita
privata, il Supremo Collegio, conformandosi ad una copiosa giurisprudenza
di merito, perviene all'affermazione che l'ordinamento giuridico riconosce
e tutela l'interesse di ciascuno a che non siano resi noti fatti o avvenimenti
di carattere riservato senza il proprio consenso.
La sentenza afferma che costituisce lesione della privacy la divulgazione
di immagini o avvenimenti non direttamente rilevanti per l'opinione pubblica,
anche quando tale divulgazione venga effettuata con mezzi leciti e per
fini non esclusivamente speculativi. Cosí si legge nella pronuncia,
relativa ad una delle controversie instaurate da Soraya Esfandiari contro
alcuni giornali che avevano pubblicato delle fotografie ritraenti l'ex-imperatrice
in atteggiamenti intimi con un uomo, nelle mura della sua abitazione.
(Omissis). - I. Il primo, il secondo ed il settimo motivo del ricorso
principale, nonché l'unico mezzo del ricorso incidentale sottopongono
al giudizio di questa Corte Suprema diverse questioni attinenti al diritto
saimmagine; questioni che saranno esaminate secondo il seguente ordine
logico: A) se la Corte d'appello abbia esattamente applicato i principi
relativi alla violazione del diritto sulla immagine; B) se abbia correttamente
giudicato in tema di sequestrabilità della stampa contenente le
immagini abusivamente acquisite e pubblicate; e) se la stessa pronuncia
della Corte d'appello sia censurabile in ordine alla configurabilità
di altri provvedimenti, diversi dal sequestro vietato dall'art. 21 Cost.
A) Il primo problema è sollevato dalla Soc. Rusconí,
la quale sostiene che, una volta riconosciuta la notorietà della
persona fotografata, l'illiceítà della pubblicazione dei
servizi fotografici poteva essere affermata soltanto nel caso si fosse
violato l'unico linúte, posto dall'art. 97 legge sul diritto d'autore,
all'informazione, e cioè il concreto pregiudizio al decorso, all'onore
od alla reputazione della persona stessa; il che doveva escludersi nella
specie, non essendo state divulgate notizie
« piccanti » o « scandalose ». Dal canto suo,
la Esfandiari censura col settimo mezzo dei ricorso principale la sentenza
impugnata per aver escluso nella specie l'offesa al suo decoro ed alla
sua ' reputazione. Deduce, in proposito,
che i servizi fotografici erano stati realizzati con abusivi stratagemmi,
proprio per cogliere atti di vita intima di una persona che vive appartata
e che non ha una spiccata personalità mondana.
La Corte milanese ha ritenuto violato il diritto all’immagine osservando
che @< l'interesse pubblico all'informazione debba corrispondere ad
un giustificato interesse della collettività alla sempre maggiore
conoscenza della persona nota e non possa, quindi, identificarsi nella
morbosa curiosità che parte del pubblico ha per le vicende piccanti
e scandalose, svoltesi nell’intimità della casa della persona assurta
a notorietà ».
La conclusione, cui sono pervenuti i giudici di merito, va condivisa,
precisandosi tuttavia la motivazione con le considerazioni che seguono.
Secondo un primo orientamento giurisprudenziale non ricorre la particolare
ipotesi giustificativa della libera divulgazione del ritratto quando la
pubblicazione dell'immagine sia stata compiuta senza alcun riferimento
alle caratteristiche della personalità ed al peculiare campo di
attività dell'effigiato, che fanno di questo una persona notoria.
Correttamente questo orientamento è stato superato, poiché,
esigendosi, oltre alla notorietà della persona, anche un collegamento
dell'immagine con l'ambiente in cui la persona stessa esplica la sua attività,
si aggiungono requisiti che non sono previsti dall'art. 97 cit., oppure
si cumulano due delle varie ipotesi, alternativamente elencate in detto
articolo, che rendono, ciascuna, lecito pubblicare il ritratto di una persona
senza il suo consenso. Nel seguire sostanzialmente tale critica, il Supremo
Collegio ha affermato che, a giustificare la pubblicazione, basta il «
pubblico interesse » a conoscere l'immagíne della persona
notoria.
Si tratta,, piuttosto, di precisare se ed in quali limiti la persona
celebre (per motivi di arte, di scienza, sport, politica) o nota per i
suoi delitti o le sue disgrazie, possa in alcuni casi invocare la tutela
della propria immagine, e particolarmente quale sia la natura di questo
pubblico interesse di conoscenza della immagine altrui.
Va anzitutto premesso che le ipotesi previste dall'art. 97 della legge
sul diritto di autore, in quanto costituiscono eccezioni alla regola del
divieto di divulgazione del ritratto di una persona senza il consenso di
questa (art. 96), devono essere interpretate restrittivamente.
Un primo limite è ovviamente quello espresso nel comma secondo
del citato art. 97, quello cioè posto a tutela, piú che del
diritto all'immagine, di quello della dignità della persona, nella
triplice gradazione dell'onore, del decoro e della reputazione.
Ma, estraendo dei logici corollari dal concetto di « notorietà
», va ritenuto che la prima eccezione al menzionato divieto di divulgazione
trova un limite, non solo nell'ambito territoriale in cui esiste la notorietà
di quella determinata persona effigíata, ma soprattutto nella ratio
per la quale il legislatore ha voluto far discendere da quella notorietà
la giustificazione del sacrificio dell'interesse individuale al riserbo
della propria immagine.
Già questa Corte Suprema, con sentenza n. 295 dei 1959, ha avuto
occasione di affermare che se il diritto all'immagine deve essere sacrificato
per l'attuazione di un pubblico interesse, ciò tuttavia deve avvenire
nei limiti in cui l'interesse stesso è ritenuto prevalente, allo
stesso modo in cui i limiti di esercizio di un diritto sono connaturati
all'interesse concreto che ne determina il riconoscimento da parte dell'ordinamento
giuridico. Da questo principio ha tratto la conseguenza che, quando la
riproduzione, esposizione e pubblicazione dell'immagine avvenga per uno
scopo che non sia quello legittimo di soddisfare l'esigenza di informazione,
nei suoi vari aspetti, cade la giustificazione alla pubblicazione ed opera
il divieto dell'art. 96 cit.
A conferma e sviluppo di questa suprema premessa di principio, nella
indicazione dei casi di abuso dell'immagine altrui, va anzitutto affermato
che il limite connaturato al pubblico interesse protetto consente di invocare
la tutela del diritto all'immagine quando questa sia utilizzata, pur senza
offesa al decoro, all'onore od alla reputazione, per esclusivo uso lucrativo
pubblicitario di un imprenditore, anche se con mezzi diversi dal marchio.
Sarebbe, invero, assurdo ritenere che il legislatore abbia inteso privilegiare
un interesse privato di pubblicità commerciale rispetto ad un interesse
non patrimoniale della persona, dovendosi invece ravvisare la volontà
legislativa di stabilire soltanto la prevalenza fra due interessi non patrimoniali;
quefio.del pubblico all'informazione su quello individuale al riserbo della
propria immagine.
li principio stabilito dall'art. 41, comma secondo, Cost. secondo cui
l'iniziativa economica non può svolgersi in contrasto con l'utilità
sociale, viene a convalidare ulteriormente la conclusione che, nel bilanciare
i contrapposti interessi, deve ritenersi che l'utdizzazione dell'immagine
altrui per scopi prettamente commerciali cede di fronte alla mancanza di
una vera utilità sociale ed al pregiudizio per la libertà
e la dignità della persona umana.
Se non esiste, quindi, un diritto di sfruttamento commerciale del ritratto
altrui, anche se di persone notorie, non può ravvisarsi nemmeno
un diritto di altri soggetti (in genere, cronisti e giornalisti) di controllare
e riferire illimitatamente ogni aspetto della vita delle persone divenute,
talvolta loro malgrado, notorie, quando il fine, esclusivo o fortemente
preminente, di tale pubblicazione sia quello di mero lucro.
La libertà di manifestazione del pensiero costituisce uno dei
fondamentali principi del nostro ordinamento, ed i suoi limiti devono essere
riconosciuti con la dovuta cautela. Questa Corte ha recentemente affermato
che il diritto di cronaca deve ritenersi circoscritto dai limiti che l'evoluzione
dottrinale e giurísprudenziale ha elaborato e che si articolaner
in una triplice condizione: in relazione alla verità del fatto esposto,
alla rispondenza ad un apprezzabile interesse sociale ed al rispetto della
riservatezza ed onorabilità della persona.
Il secondo degli indicati limiti, quello c.d. della pertinenza, coíncide
con la sopra esposta ratio dell'art. 97 cit., nel senso che anche questa
norma consente eccezionalmente che il generale divieto della divulgazione
dell'ímrnagíne altrui venga derogato quando la notorietà
della persona effigiata spieghi e giustifichi un effettivo pubblico interesse
ad una maggiore conoscenza di quella persona e ad una piú completa
informazione. Ma la sfera privata delle persone notorie, quanto piú
essa è ristretta, tanto piú deve essere tutelata da intrusioni
non giustificate da alcuna rilevanza sociale.
Quanto al terzo degli indicati limiti, va osservato che, ove si riconosca
la configurabilità, entro un determinato ambito, di un autonomo
diritto alla riservatezza della propria vita privata - come sarà
piú avanti dimostrato - la portata di questo piú generale
diritto, di cui ovviamente gode anche la persona notoria, vale ad illuminare
meglio l'ambito della tutela specifica dell'ímmagine della persona
stessa.
Se, quindi, la sentenza impugnata si sottrae a censura, sia pure con
le precisazioni sopraesposte, per l'affermazione della violazione del diritto
all'immagine, non costituendo il rispetto dell'onore, del decoro e della
reputazione il solo limite alla utilizzazione del ritratto della persona
notoria - il che impone il rigetto del ricorso incidentale - va, parimenti,
respinto il settimo motivo del ricorso principale, in quanto, per dimostrare
che la pubblicazione del servizio fotografico doveva ritenersi lesiva del
suo decorso, la Esfandiari espone argomenti che si risolvono in questioni
di fatto, di cui questa Corte di legittimità non può tener
conto.
B) In ordine alla sequestrabilità della stampa contenente le
immagini abusivamente acquisite e pubblicate, la ricorrente principale
pone tre questioni: a) la Corte milanese avrebbe escluso la sequestrabilità
sentendosi vincolata alla pronuncia n. 122/70 della Corte costituzionale,
mentre questa, avendo natura interpretativa di rigetto, non aveva efficacia
erga omnes; b) il giudice avrebbe dovuto valutare la sussistenza dei presupposti
di fatto e di diritto relativi al provvedimento da convalidare con riferimento
solo al tempo in cui era stato richiesto ed autorizzato (luglio 1968),
e non con riferimento al momento della pronuncia della Corte costituzionale
(luglio 1970); c) in ogni caso, quando la pubblicazione dell'immagine altrui
a mezzo stampa non sia strumento di diffusione del pensiero, non gioca
il terzo comma dell'art. 21 della Costituzione, che trova ragione d'essere
solo nel comma primo dello stesso articolo.
Le tre censure sono infondate.
Non può essere accolta la prima, perché la Corte di Milano
non ha fatto discendere automaticamente la sua decisione sul punto dalla
pronuncia della Corte costituzionale, ma, pur citando tale sentenza e dando
ad essa il dovuto peso, ha fornito una autonoma motivazione, dimostrando
che il sequestro non trovava un legittimo titolo nell'art. 161 della legge
sul diritto d'autore, né in base all'art. 700 c.p.c.
Per quanto riguarda la seconda censura, va premesso che, pur essendosi
il legislatore (artt. 680, 681 c.p.c.) preoccupato di far seguire il giudizio
di convalida immediatamente dopo la concessione del sequestro, non è
escluso che fra i due momenti si verifichi un mutamento della situazione
di fatto o di diritto. E va osservato che, se per sopravvenuti mutamenti
è consentita anche la revoca di un sequestro già convalidato,
a maggior ragione il giudice della convalida deve temer conto non solo
della sussistenza o meno delle condizioni che legittimavano l'autorizzazione
del provvedimento cautelare al momento in cui questo era stato chiesto
e concesso, ma deve anche evitare che il sequestro persista ingiustamente,
accertando se dette condizioni sussistano o meno al momento della convalida.
Questo principio è stato già sostanzialmente affermato dalla
Suprema Corte.
Nella specie, comunque, tra il momento della concessione dei sequestro
e quello della sua convalida non vi era stato alcun mutamento della situazione
giuridica, avendo la Corte costituzionale, con la sentenza interpretativa
di rigetto n. 122 del 1970, portato soltanto un contributo chiarificatone
sui principi della Costituzione in tema di sequestro di stampa, che vigevano
al tempo in cui il provvedimento cautelare era stato disposto, ed ovviamente
il giudice della convalida ha valutato le condizioni di concessione del
sequestro con la sensibilità giuridica consona al momento in cui
era chiamato a pronunciarsi.
Né appare fondata la terza questione sollevata dalla ricorrente
in tema di sequestrabilità dell'immagine stampata.
Quale sia il collegamento intercorrente fra il primo ed il terzo comma
dell'art. 21 Cost. - se, cioè, i limiti alla sequestrabilità
della stampa ed in particolare dell'immagine stampata debbano sempre inquadrarsi
nella libertà di pensiero, per cui essi siano condizionati ai requisiti
di tutela di questa libertà - potrebbe formare oggetto di una interessante
indagine. Ma, nell'economia della presente causa, non è necessario
approfondire tale questione, né mette conto ricercare se vi sia
qualche ipotesi in cui nell'immagine stampata ed avulsa da un contesto
non sia ravvisabile alcun messaggio intrinseco per il lettore, una volta
che nella specie ricorrano le condizioni per affermare che costituisce
senza dubbio manifestazione del pensiero la pubblicazione sulla stampa
dell’immagine di una persona assurta a notorietà, nell'atto di compiere
un'azione;
tanto- più se la pubblicazione sia corredata da titoli e didascalie.
Accertato, pertanto, che l'immagine non si trovi ancora presso colui
che l'ha acquisita, o presso la redazione o l'editore della pubblicazione
cui è destinata, ma sia stata già stampata, ed accertato
che l'ipotesi rientra nell'ambito della norma dell'art. 21 Cost., essa
non può essere sequestrata nemmeno nel caso che sia stata acquisita
e divulgata in contrasto con altre -norme, anche se di natura costituzionale.
La stessa Carta fondamentale infatti, contemperando i diversi interessi
giuridicamente protetti, ha stabilito che si può procedere a sequestro
preventivo della stampa soltanto in due ipotesi, la prima delle quali esige
la concorrenza di due requisiti: che si tratti di delitti, per i quali
la legge espressamente autorizzi il sequestro.
C) La terza questione relativa al diritto all'immagine riguarda la
prospettata legittimità di altri provvedimenti, diversi dal sequestro,
intesi a far cessare il protrarsi dell'abuso dell'immagine altrui. La ricorrente
principale deduce, in particolare, con il secondo mezzo, che legittimamente
era stata ordinata e confermata la distruzione delle copie del periodico
che aveva pubblicato le immagini della Esfandiari; che i giudici non avrebbero
dovuto porsi alcun problema di convalida dei provvedimenti atipici emersi
ai sensi dell'art. 700 cod. proc. civ., poiché tali provvedimenti
restano confermati o meno con la stessa decisione di
merito.
La questione risulta assorbita da quanto già precedentemente
osservato, con le precisazioni che seguono.
Una volta concesso il sequestro delle copie del settimanale, doveva
procedersi al giudizio di convalida e, poiché non ricorrevano le
condizioni previste dall'art. 21 Cost., tale giudizio non poteva essere
che negativo.
E’ parimenti indiscutibile che i provvedimenti di urgenza atipici,
disciplinati dagli artt. 700 e segg. c.p.c., non richiedono il giudizio
di convalida, ma restano assorbiti dalla sentenza che accerti od escluda
l'esistenza del diritto cautelato.
Va, però, chiarito che l'art. 700 cit. non può costituire
la fonte del potere di concessione di un provvedimento, come il sequestro
della stampa, vietato da altra norma dell'ordinamento giuridico, ed in
particolare dall'art. 21 Cost., che lo consente nei rigorosi limiti sopraindicati.
P, vero che l'art. 10 c.c. dà all'autorità giudiziaria
il potere di « disporre che cessi l'abuso » dell'immagine altrui;
ed è altresí vero che, nel ritenere legittime le norme che
consentono di inibire la diffusione dell'immagine altrui e di sequestrarla
anche quando questa, per essere nella materiale disponibilità di
un'impresa giornalistica, deve ritenersi destinata alla pubblicazione a
mezzo della stampa, la Corte costituzionale, con sentenza n. 38 dei 1973,
ha giustificato l'applicabilità in tali casi dell’art. 700 codice
di rito osservando che « mentre ciò non può identificarsi
con l'esercizio di un'attività di censura, costituisce un mezzo
efficace per attuare la protezione provvisoria di diritti della personalità
rientranti in quelli inviolabili che la Costituzione salvaguarda, tenuto
anche conto della estrema importanza di tali diritti, della gravità
e dell'irreversibilità del danno che la violazione di essi arreca
agli interessati e che può incidere irrimediabilmente sulla loro
posizione sociale, e su quella dei loro congiunti, dell'impossibilità
di ripararlo adeguatamente, dell'esigenza di un pronto intervento per impedire
che il pregiudizio si verifichi ».
Senonché, queste affermazioni sono state possibili in quanto,
non solo si trattava di sequestro limitato al materiale lesivo dei diritto
all'immagine e non anche di tutto il periodico, ma soprattutto perché
si trattava di materiale che, pur destinato alla pubblicazione, non era
stato ancora stampato. Non venendo, quindi, ad incidere su una riproduzione
a stampa che costituisca già una manifestazione attuale e concreta
dell'ese'rcizio del diritto di libertà tutelato dall'art. 21 Cost.,
il sequestro non integra lesione di tale diritto.
Inoltre, la prevalenza dell'interesse all'informazione è giustificata
anche dall'esigenza di non sacrificarlo irreversibilmente prima ancora
che sia accertata la lesione di un altro interesse tutelato dalla legge.
Si è, infatti, fuori dell’ambito della citata norma costituzionale,
oltre che nel caso esaminato dalla menzionata sentenza 38/73 della Corte
costituzionale, in quello previsto dall'art. I del R.D.L. 31 maggio 1946,
n. 561 che fa riferimento al sequestro (ma non in senso tecnico, che è
quello preventivo-cautelare) di pubblicazioni o stampati « in virtú
di una sentenza irrevocabile dell'autorítà giudiziaria »
o in presenza di provvedimento atipici ex art. 700 c.p.c., diversi dal
sequestro, intesi a far cessare temporancamente o a contenere il pregiudizio
che la pubblicazione arreca ai diritti altrui.
Per tutte le esposte considerazioni e precísazioni, devono essere
respinti il ricorso incidentale, il primo ed il settimo mezzo dei ricorso
principale, mentre resta assorbito il secondo motivo di questo ricorso.
2. Prima di esaminare il terzo, il quarto, il quinto ed il sesto mezzo
del ricorso principale i quali riguardano le conseguenze dannose dei sequestro,
illegittimamente chiesto e concesso, nonché la pubblicazione della
sentenza che riconosce la violazione del diritto della Esfandiari, va preliminarmente
affrontata la questione relativa alla tesi della confígurabilità
di un autonomo diritto alla riservatezza delle proprie vicende personali,
che la ricorrente ha riproposto nell'ottavo motivo allo scopo di rafforzare
la dimostrazione della lamentata violazione dei suoi diritti.
La questione che, com'è noto, è stata quanto mai dibattuta
in dottrina, in diversi congressi internazionali, ed ha formato oggetto
di numerose sentenze dei giudici di merito, nonché di alcune pronunce
di questa Corte Suprema, esige una soluzione che, nella naturale evoluzione
giurisprudenziale, mentre resti ancorata alle norme costituzionali ed alle
altre disposizioni del nostro ordinamento positivo, sia sensibile al contemperamento
della tutela dei diversi interessi, alla luce di una vasta tendenza, anche
di diritto internazionale, ad estendere la difesa della personalità
umana, sia nei confronti dell'abuso dei pubblici poteri, che nei rapporti
intersoggettivi individuali.
Tale esigenza è stata vieppiú sentita per le dimensioni
e gli aspetti allarmanti che il problema è andato assumendo, dato
il continuo sviluppo della moderna tecnologia, la quale offre ai poteri
pubblici o ai privati snìisurate possibilità, mediante perfezionati
strumenti di acquisizione conoscitiva, di penetrante controllo su ogni
aspetto di vita e di rapida divulgazione generale dei dati acquisiti. Questa
straordinaria evoluzione, specie per i suoi possibili risvolti negativi,
se deve essere valutata in altre sedi in ordine alla gestione ed alle limitazioni,
non può essere ignorata nemmeno dal diritto privato, ed in particolare
in sede giurisprudenziale.
Quando la questione sulla sussistenza e sui limiti dei diritto alla
riservatezza venne per la prima volta sottoposta all'esame della Suprema
Corte, questa osservò che « nessuna disposizione di legge
autorizza a ritenere che sia stato sancito, come principio generale, il
rispetto assoluto dell'intimità della vita privata. Sono stati soltanto
riconosciuti e tutelati, in modi diversi, singoli diritti soggettivi della
persona ». Tale orientamento venne confermato dalla stessa Corte,
secondo la quale tuttavia « la diffusione di fatti o pensieri altrui
incontra il duplice limite della tutela dell'onore, del decoro e della
reputazione, nonché del divieto di deformazione della verità
».
Senonché, con sentenza n. 990 dei 1963, questa Corte, mentre
continuava ad escludere l'esistenza di un « diritto alla riservatezza
in senso tipico », riteneva che « tuttavia la tutela giuridica
deve ammettersi nel caso di violazione del diritto assoluto di personalità,
inteso quale diritto erga omnes alla libertà di autodeterminazione
nello svolgimento della personalità dell'uomo come singolo. Tale
diritto è violato se si divulgano notizie della vita privata, le
quali, per tale loro natura, debbono ritenersi riservate, a meno che non
sussista un consenso, anche implicito, della persona, desunto dall'attività
in concreto svolta o, data la natura dell'attività medesima e del
fatto divulgato, non sussista un prevalente interesse pubblico di conoscenza
che va considerato con riguardo ai doveri di solidarietà politica,
economica e sociale inerente alla posizione del soggetto ».
A tale sostanziale - se pur indiretto - riconoscimento del diritto
alla riservatezza, seguivano sentenze che, incidentalmente, facevano formale
riferimento a questa qualificazione del diritto (Corte costituzionale n.
34 e 38 del 1973; Cass. n. 868/74).
I ricordati orientamenti giurisprudenziali non si sono sottratti a
critiche, ondè opportuno un approfondimento, nei limiti consentiti
in questa sede, per la puntualizzazione dei concetti anche alla luce di
sopravvenuti elementi normativi.
Va premesso che la soluzione del problema non può prescindere
dallo strumento tecnico privatistico del diritto soggettivo, fondato su
una antica concezione dommatica.
Per quanto apprezzabili, invero, siano i tentativi della dottrina,
intesi ad aprire piú larghe prospettive, specialmente per una moderna
elaborazione dell'istituto dell'illecito civile, non sembra che siano maturi
i tempi per ritenere superato il tradizionale concetto di diritto soggettivo
come categoria qualificante le situazioni giuridiche soggettive particolarmente
rilevanti nel nostro sistema, in quanto tutelate in modo diretto.
La recente giurisprudenza di questa Corte, pur evolvendosi nel ravvisare
nell'ingiustizia del danno, considerata dall'art. 2043 c.c., l'accezione
di danno prodotto non iure (e cioè non giustificato), non abbandona
l'altra accezione del contro ius, vale a dire, in quanto tale fatto incida
su una posizione soggettiva attiva tutelata come diritto perfetto.
Se, quindi, allo stato defl'evoluzione dottrinale e giurisprudenzíaìe,
non sussiste un sicuro criterio di individuazione di responsabilità
che prescinda dalla situazione incisa dal comportamento illecito, la tutela
di un diritto soggettivo alla riservatezza passa attraverso l'indivíduazione
del suo fondamento normativo.
Tanto piú questa ricerca è obbligata, in quanto tale
tutela impinge, e, sotto certi aspetti, limita la libertà di manifestazione
del proprio
pensiero; limitazioni che non possono essere poste se non per legge
e devono trovare fondamento in precetti esplicitamente enunciati dalla
Costituzione o da questa tratti mediante rigorosa applicazione delle regole
di ermeneutica.
L'indagine sul fondamento normativo del cosiddetto diritto alla riservatezza
esige un, sia pur rapido, accenno alle definizioni date a questo diritto,
in quanto agevola la determinazione del suo contenuto e quindi della corrispondenza
di questo nell'arnbito delle singole norme che saranno prese in esame.
Con l'espressione « diritto alla riservatezza » - una delle
prime e piú usate formulazioni del fenomeno, che non può
essere píú abbandonata - sono indicate diverse ipotesi, che
implicano un problema, non solo formale, ma anche di sostanza. Esse possono
sintetizzarsi almeno in tre aspetti.
Da una parte si tende a restringere rigorosamente l'ambito di questo
diritto al riserbo della « intimità domestica », collegandola
al concetto ed alla tutela del domicilio. A questa concezione corrisponde
forse il « tbe righe to be alone » degli anglosassoni.
All'opposto, vi sono formulazioni molto generiche - « il riserbo
della vita privata » da qualsiasi ingerenza, o la c.d. « privatezza
» (privacy) - cui corrisponderebbe un sostanziale ambito troppo vasto
o indeterminato della sfera tutelabile.
Una concezione intermedia, che riporta in limiti ragionevoli la portata
di questo diritto, può identificarsi nelle formule che fanno riferimento
ad una certa sfera della vita individuale e familiare, alla illesa intimità
personale in certe manifestazioni della vita di relazione, a tutte quelle
vicende, cioè, il cui,carattere intimo è dato dal fatto che
esse si svolgono in un domicilio ideale, non materialmente legato ai tradizionali
rifugi della persona umana (le mura domestiche o la corrispondenza).
Ora, questa Corte ritiene, ai fini della ricerca del fonelamento normativo
dei diritto soggettivo alla riservatezza, che - superate le vie finora
seguite, e cioè quelle della analogia iuris o dei ricorso ai principi
generali dell'ordinamento - sia possibile rinvenire una diretta tutela
di tale interesse non soltanto riguardato nella prima ristretta accezione,
ma anche per l'ambito indicato dalla terza concezione.
Le norme che sono a fondamento del diritto alla riservatezza, rigorosamente
circoscritto al riserbo di tutte quelle vicende che sono legate all'intimità
domestica, sono troppo evidenti per esigere un'ampia dimostrazione. Basta
accennare alle norme costituzionali contenute negli artt. 14 e 29 Cost.,
all'art. 614 c.p., ed alla legge 8 aprile 1974, n. 98, intitolata «
tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni
», che all'art. 1 punisce chiunque, mediante l'uso di strumenti di
ripresa visiva o sonora, si procura indebitamente notizie od immagini attinenti
alla vita privata svolgentesi nei luoghi indicati nell'art. 614. Nel secondo
comma dello stesso articolo, la legge limita la libertà di manifestazione
del pensiero, punendo « chi rivela o diffonde, mediante qualsiasi
mezzo di informazione, al pubblico, le notizie o le immagini ottenute nei
modi indicati ».
Ma la libertà della persona dalle ingerenze altrui nella propria
sfera di intimità trova sufficienti e validi ancoraggi normativi
anche nella terza ipotesi sopra indicata, e cioè anche quando le
situazioni o le vicende, personali e familiari, si siano svolte fuori dal
domicilio domestico e le notizie siano state acquisite dai terzi con mezzi
leciti.
Va premesso che a due fondamentali spinte sociali della moderna civiltà
corrispondono interessi, a volte complementari o contrapposti, sintetizzati
nella felice formula dell'art. 2 della nostra Costituzione: quelli relativi
all'individualità (col riconoscimento dei diritti inviolabili dell'uomo,
come singolo e nelle sue formazioni sociali, prima fra tutte quelle della
famiglia), e quelli relativi alla solidari età politica, economica
e sociale.
Stabilire quali di questi interessi costituiscano la regola e quali
l'eccezione è compito del legislatore e dell'interprete, attraverso
un giustificato bilanciamento e secondo le diverse fattispecie. Talvolta
la legge sembra privilegiare le esigenze pubbliche di un gruppo sociale
nell'intera comunità o dell'organizzazione statale (cosí
quando tutela l'interesse alla pubblica informazione, legittima alcune
intromissioni degli organi fallimentari nella vita del fallito, consente
ingerenze nella sfera privata per la raccolta delle prove).
Altre volte dà prevalenza e accorda una limitata tutela agli
interessi personali e familiari, soddisfacendo esigenze di libertà
individuale riconosciute da molti sistemi costituzionali.
Il nostro ordinamento contiene numerose norme ínquadrabili iii
questa seconda prospettiva e che non possono essere elencate compiutamente.
Alcune di esse prendono in speciale considerazione determinate manifestazioni
personali, per apprestare specifici strumenti di tutela contro l'invadenza
di altri interessi: cosí in ordine al corpo (art. 5 c.c.), al nome
(artt. 6-9 c.c.), all'immagine (art. 10 c.c.), all'anonimato e all'inedito
(artt. 21 e 24 legge dir. d'autore), all'onore contro la rivelazione di
fatti determinati (art. 595, secondo comma, c.p.) al domicilio (art. 614
c.p.), alla corrispondenza (artt. 616 c.p. e 48 legge fall.).
. Altre norme privilegiano il riserbo personale e familiare
perfino su interessi pubblici processuali, come il diritto di rifiutare
ispezioni personali (artt. 116, 118 c.p.c.), il diritto defl'imputato di
non rispondere (artt. 367, 441 c.p.p.), il diritto dei familiari a non
deporre su fatti verificatisi nell'ambito del nucleo (art. 247 c.p.p.),
la non pubblicità delle udienze istruttorie (art. 84 disp. att.
c.p.c.), i limiti all'esame dei fascicoli (art. 76 disp. att. c.p.c.),
il segreto istruttorio (art. 307 c.p.p.), i limiti alla pubblicazione di
atti processuali (artt. 684, 685 c.p.; artt. 164, 230 c.p.p,), o in tema
di casellario giudiziario (art. 609 ss. c.p.p.).
Non mancano mezzi a tutela della,riservatezza nei rapporti che la persona
stabilisce con professionisti (art. 622 c.p.) con pubblici funzionari (art.
15 t.u. 10 gennaio 1957, n. 3), con banche (art. 10 r.d.l. 17 luglio 1937,
n. 1400), con imprese (artt. 2105, 2622 c.c.). Anche i giornalisti sono
tenuti a rispettare « la personalità altrui ed è loro
obbligo inderogabile il rispetto della verità » (art. 2 legge
n. 68/1963).
Ora, tutte queste disposizioni, se apprestano specifici strumenti di
tutela a determinate manifestazioni individuali, presuppongono l'appartenenza
alla persona umana di beni fondamentali già riconosciuti - sia pure
implicitamente - dai principi fondamentali dell'ordinamento e dalla coscienza
sociale: quelli della vita, dell'integrità fisica, della libertà,
della dignità morale, e, tra questi, anche il diritto alla riservatezza
della vita privata, come risulterà confermato da quanto segue.
Basterebbe, infatti, osservare che se il legislatore ha ritenuto necessario
precisare i mezzi di difesa per alcuni aspetti della vita personale, a
fortioti deve ravvisarsi la sua volontà di tutelare quanto è
piú intimo e piú completo rispetto alle altre manifestazioni
esteriori e particolari della persona umana. Questa deduzione è
tratta con il criterio ermeneutico, recepito nell'art. 12 delle Disp. sulla
legge in gen., secondo cui « scure leges non est verba earum tenere,
sed vim ac potestatem ».
Ma il fondamento norrnativo del diritto alla riservatezza non è
solo implicito nel sistema; esso trova una serie di espliciti riferimenti
legislativi. Molte volte, infatti, il legislatore ha avuto occasione di
confermare la sua intenzione di garantire il riserbo dovuto alle intime
situazioni personali e familiari: riguardo alle notizie raccolte in sede
di ríievazioni statistiche (art. 19 r.d.l. 27 maggio 1929, n. 1285),
e a quelle contenute nei registri dello stato civile (artt. 140 e 185 r.d.l.
9 luglio 1939, n. 1238), in particolare circa la paternità e maternità
(leggi n. 586150 e n. 1064/55); facendo divieto di pubblicare corrispondenza
o memorie che « abbiano carattere confidenziale o si riferiscano
alla intimità della vita privata » (art. 93 legge n. 63311941);
con l'obbligo dei lavoratore domestico di « mantenere la necessaria
riservatezza per tutto quanto si riferisca alla vita familiare »
(art. 6 legge n. 33911958); con il divieto di indagini personali sul corpo
e sulle opinioni del lavoratore (legge n. 300 del 1970); si è perfino
derogato al principio della pubblicità del dibattimento penale «
quando la lettura o l'ascolto possono ledere il 'diritto alla riservatezza'
di soggetti estranei alla causa ovvero, relativamente a fatti estranei
al processo, il diritto delle parti'private alla riservatezza » (art.
7 legge n. 98/1974).
Una tutela dei diritto alla riservatezza piú ampia di quella
circoscritta all'intimità domestica, non solo non contrasta con
i principi costituzionali, ma trova in essi vari motivi di convalida.
Questa Corte aveva ravvisato nell'art. 2 Cost. l'unico fondamento del
diritto assoluto di personalità, che risulta violato dalla divulgazione
di notizie della vita privata. Alla critica, secondo cui l'art. 2 enuncia
solo in via generale la tutelabilità di diritti inviolabili, che
trovano il loro riconoscimento effettivo in altre specifiche norme, deve
precisarsi che questa Corte - deducendo dal citato articolo il «
diritto erga omnes alla libertà di autodeterminazione » -
intendeva porre l'accento - piú che sul riferimento ai diritti inviolabili
- sull'espressione della norma che riconosce all'uomo il rispetto della
sua personalità, come singolo e nelle formazioni sociali ove tale
personalità si svolge.
Un duplice spunto di convalida al diritto di riservatezza si trae anche
dall'art. 3 Cost. sia p>ercbé, riconoscendosi la dignità
sociale del cittadino, si rende necessaria una sfera di autonomia che garantisca'
tale dignità, sia in quanto rientrano nei limiti di fatto della
libertà ed eguaglianza dei cittadini anche quelle menomazioni cagionate
dalle indebite ingerenze altrui nella sfera di autonomia di ogni persona.
E, sotto questo profilo, va ricordata anche la inviolabilità della
libertà personale (art. 13), intesa questa in un senso piú
ampio della libertà meramente fisica.
Già si è notata la rilevanza che sul problema della riservatezza
ha l'art. 14 della Costituzione, che riguarda, oltre la inviolabilità
del domicilio, anche i limiti alle ispezioni, alle perquisizioni, agli
accertamenti per motivi pubblici. Nella stessa linea si pone il successivo
art. 15, relativo all'inviolabilità della libertà e della
segretezza della corrispondenza.
Anche dalla presunzione di innocenza dell'imputato sino alla condanna
definitiva (art. 27 Cost.) dovrebbero trarsi dei conseguenti limiti alla
diffusione di notizie - inutili e talvolta dannose alle esigenze di giustizia
- sulle vicende dell'imputato e sui cd. « retroscena » dei
delitti.
Uno sviluppo dell'art. 2 è costituito dalla norma dell'art.
29, che riconosce il carattere originario e l'inviolabile autonomia della
famiglia. Uno spunto, infine, si trae dal secondo comma dell'art. 41 Cost.
laddove l'iniziativa economica trova un linúte nel rispetto della
libertà e della dignità umana.
Se il diritto alla riservatezza è in armonia con i principi
costituzionali, esso viene espressamente riconosciuto dia diverse delíberazioni
di
carattere internazionale. Non sembra adeguarsi all'economia della presente
decisione, un approfondito esame della natura dei singoli Atti, per accertare
se essi si indirizzino soltanto agli Stati ed ai legislatori degli stessi,
o se abbiano anche diretta efficacia nei rapporti intersoggettivi, alla
luce di quanto affermato per analoghe situazioni, dalle sentenze 122170
e 183/73 della Corte costituzionale. Indubbiamente le disposizioni contenute
in tali Atti internazionali costituiscono quanto meno un notevole criterio
interpretativo delle norme vigenti nel nostro ordinamento, specie quando
si tratti di norme successivamente emanate.
Giova appena accennare alla Dichiarazione universale sui diritti dell'uomo
(approvata il 10 dicembre 1948 dall'ONU), ed al Patto internazionale relativo
ai diritti civili e politici, approvato dall'Assembica dell'ONU con risoluzione
16 dicembre 1966, n. 2200, dai quali risulta vietata qualsiasi interferenza
arbitraria nella « vita privata » dell'individuo.
Parimenti la Convenzione europea, firmata a Roma il 4 novembre 1950
(resa esecutiva con I. 4 agosto 1955, n. 848), ha ribadito che «
toute personne a droit au respect de sa vie privée et familiare,
de son domicile et de sa correspondence » (art. 8), stabilendo altresí
che la libertà di pensiero trova un limite nella « protectioir
de la réputation ou des droits d'autrui, pour empécher la
divulgation d'informations confidentielles » (art. 10, n. 2).
Il contenuto di queste disposizioni è stato fatto proprio e
sviluppato dalla risoluzione n. 428 del 1970 dell'Assembica dei Consiglio
d'Europa, che ha precisato « le droit au respect de la vie privée
... doit proteger t'individui non seulement contre l'ingérence des
pouvoirs publics, mais aussi contre celle des particuliers et des institutions
p@ivées, comprise les moyens de communication de masse ».
La stessa Convenzione europea dei 1950 fornisce un preciso quadro dei
limiti in cui il diritto alla riservatezza deve essere riconosciuto, stabilendo
che l'ingerenza nella vita privata della persona può essere consentita
quando essa sia « prévue par la loi, et qu'elle constitue
une mesure qui, dans une société démocratique, est
nécessaire à la sécurité nazionale, à
la súreté publique, au bien-étre économique
du pays, à la défense de l'ordre et à la prévention
des infractions pénales, à la protection de la santé
ou de la morale, ou à la protection des droits et libertés
d'autrui ».
In accoglimento, quindi, dell'ottavo motivo del ricorso principale
- pur non essendo opportuno dare del diritto alla riservatezza rigide descrizioni
analitiche di impaccio alla necessaria duttilità dei suo preciso
contenuto e alle esigenze degli ambienti, delle zone e dei tempi - può
affermarsi che tale diritto. consiste nella tutela di quelle situazioni
e vicende strettamente personali e familiari, le quali, anche se verificatesi
fuori del domicilio domestico, non hanno per i terzi un interesse socialmente
apprezzabile, contro le ingerenze che, sia pure compiute con mezzi leciti,
per scopi non esclusivamente speculativi e senza offesa per l'onore, la
reputazione e il decoro, non siano giustificate da interessi pubblici preminenti.
Il diritto stesso non può essere negato ad alcune categorie
di persone, solo in considerazione della loro notorietà, salvo che
un reale interesse sociale all'informazione od altre esigenze pubbliche
lo esigano.
3. Nell'esame degli altri motivi del ricorso principale, è opportuno
far precedere quello del quarto e del quinto mezzo, con i quali la Esfandiari
denunzia l'ultrapetizione in cui sarebbero incorsi i giudici di appello
nel condannarla al risarcimento dei danni per la pubblicità data
al sequestro del settimanale, e per avere ritenuto illegittima la comunicazione
alla stampa di una pronuncia giudiziaria.
Per i poteri ad essa spettanti in tema di errores in procedendo, questa
Corte ha accertato che la Società editrice chiese tempestivamente
che la Esfandiari fosse condannata al risarcimento dei danni anche per
la pubblicità data alla concessione del sequestro; per cui non sussiste
il denunziato vizio di ultrapetizione.
Ma, se il quarto motivo non ha fondamento, deve invece essere accolto
il quinto mezzo di ricorso, concernente la legittimità della comunicazione
alla stampa di una pronuncia giudiziaria. La sentenza impugnata contiene
in proposito una motivazione che si limita ad affermare che la pubblicità
data al sequestro costituisce un fatto potenzialmente produttivo di evento
dannoso.
Deve, in proposito, ritenersi che, per aversi un fatto illecito, fonte
di responsabilità extracontrattuale se commesso con dolo o colpa,
si richiede un comportamento contrastante con il principio generale che
impone ai singoli, nello svolgimento delle loro attività, di non
cagionare ad altri un danno ingiusto. Il danno, per essere « ingiusto
», deve essere cagionato da un comportamento vietato dal diritto
obiettivo in quanto leda ingiustificatamente un altrui diritto soggettivo.
Non può essere tale il comportamento di chi agisce nell'esercizio
di un proprio diritto, ancorché tale suo comportamento legittimo
cagioni a terzi un pregiudizio.
Vero è che anche dall'esercizio di un diritto soggettivo può
derivare ad altri un danivo ingiusto risarcibile, qualora non venga osservato
il grado di prudenza e diligenza che in concreto occorre spiegare nello
svolgimento dell'attivítà posta in essere nell'es'ercizio
del diritto medesimo. Ma non può qualificarsi in ogni caso irnprudente
o negligente il comportamento di chi si limiti a comunicare alla stampa
un provvedi mento giudiziario, ancorché questo sia suscettibile
di controlli e di revoca e successivamente sia stato riconosciuto illegittimo
od erroneo.
Tenendo presenti questi principi, il giudice di rinvio accerterà,
nei limiti consentiti dall'art. 394 c.p.c., se nella fattispecie in esame
la comunicazione alla stampa non contenesse altri elementi estranei all'esercizio
del diritto.
Con il terzo motivo, la ricorrente principale deduce : a) che ogni
danno derivato da un sequestro, temerariamente richiesto o irritualmente
eseguito, può dar luogo unicamente alla responsabilità aggravata
prevista dall'art. 96 c.p.c., e non anche alla responsabilità aquiliana
ex art. 2043 c.c.; b) che la domanda riconvenzionale per una condanna generica
per lite temeraria non è proponibile; c) che, pur configurandosi
una responsabilità per fatto illecito, ne mancavano i presupposti,
non potendosi ravvisare colpa nella richiesta di un provvedimento cautelare,
non esistendo nella specie alcun danno, e tanto meno ingiu
'sto, dato il riconoscimento del diritto sostanziale a tutela del quale
era stato concesso il sequestro; d) che la sentenza impugnata è,
in ogni caso, carente di motivazione sul punto.
La complessa censura ha un parziale fondamento.
Sul primo profilo va richiamata la giurisprudenza di questa Corte secondo
cui l'art. 96 c.p.c. non esaurisce tutte le ipotesi di responsabilità
nascenti da un'attività processuale di parte, ma regola soltanto
alcune ipotesi che il legislatore ha ritenuto opportuno disciplinare con
norme di carattere particolare. In altre ipotesi, qualora ricorrano i presupposti
di legge, è applicabile la norma piú generale, contenuta
nell'art. 2043 C.C. A tal fine, si distinguono le procedure « ingiuste
», cioè non sorrette da un diritto sostanziale o da altri
requisiti previsti dalla legge - che trovano sanzione nell'ístituto
della responsabilità aggravata prevista dall'art. 96 c.p.c. - dalle
procedure « illegittime », cioè irrituali, che trovano
invece la loro sanzione nella responsabilità aquiliana ex art. 2043
C.C.
Senonclìé, un piú recente indirizzo giurisprudenziale
ha fatto leva su altri argomenti per giungere alla conclusione - che questo
Supremo Collegio ritiene piú convincente - secondo cui in nessun
caso può farsi ricorso alla norma dell'art. 2043 c.c., distinguendosi
fra procedure ingiuste, da comprendersi nei due commi dell'art. 96, e procedure
illegittime per l'inosservanza delle forme prescritte dalla legge, per
le quali varrebbe la norma generale della responsabilità per fatto
illecito.
Se allora la responsabilità processuale per danni ricade interamente,
in tutte le sue possibili ipotesi, sotto la disciplina dell'art. 96 c.p.c.,
doveva ritenersi improponibile la domanda di condanna generica di danni
direttamente dipendenti dal praticato sequestro, posto che – come ripetutamente
affermato da questa Corte - la competenza a giudicare sulla domanda di
risarcimento danni peS responsabilità processuale spetta esclusivamente,
sia per l'an che per il quantum al giudice competente sul merito.
La condanna generica può, in astratto, giustificarsi, ex art.
2043 c.c., limitatamente ai danni che sarebbero derivati dalla pubblicità
data al provvedimento di sequestro, in quanto collegabili ad un'attività
successiva e diversa da quella processuale. In relazione, peraltro, a quanto
si è rilevato a proposito del quarto e del quinto motivo, devesi
demandare al giudice di rinvio il compito di riesaminare questo punto,
onde stabilire se, alla stregua dei principi di diritto e dei criteri-limite
sopraenunciati, ricorrono i presupposti perché possa ipotizzarsi
una responsabilità aquiliana per attività posta in essere
nell'esercizio di una facoltà legittima.
Non resta che l'esame del sesto motivo del ricorso principale, con
il quale la Esfandiari censura la sentenza della Corte milanese laddove
non dispone la pubblicazione della decisone, ai sensi dell'art. 120 p.c.,
osservando che nella fattispecie la pubblicazione aggraverebbe, anziché
riparare, l'eventuale danno derivato all'attrice.
Il motivo è fondato.
Non si contesta che l'ordinare la pubblicazione della sentenza sui
giornali, ai sensi dell'art. 120 c.p.c., è affidato al criterio
prudenziale del giudice di merito e non è quindi censurabile in
sede di legittimità, se il giudice abbia escluso che la pubblicazione
avrebbe potuto contribuire comunque a riparare il danno sofferto. Ma tale
incensurabilità può aversi soltanto se il giudizio di merito
sia fondato su una congrua e logica motivazione, aderente alle concrete
peculiarità della lite.
.Nella specie, la motivazione della sentenza è viziata di apoditticità
e contiene un'implicita illogícità, in quanto l'aggravamento
del danno sofferto dall'attrice poteva avere un fondamento logico nel caso
di reiterazione della pubblicazione del servizio fotografico lesivo dei
suoi diritti, ma non con la pubblicazione della sentenza che riconosceva
l'abusività del servizio stesso, riaffermando i diritti violati.
(Omissis).